sabato 4 febbraio 2012

Perchèamenonmenefrega

Fuori nevica, son sommerso di studio e non ho potuto nemmeno festeggiare a dovere il mio ultimo 26. Dare un esame e non festeggiarlo è come non darlo.
Fuori nevica e l'ho già detto, e ho pure bevuto un pochettino. Qualcosa e RedBull, mentre fuori nevica.

Dovrei fregarmene di più di questo Blog, anche se agli altri non frega nulla.


sabato 31 dicembre 2011

Il Classificone 2011

Come tutti gli anni, arriva il momento di tirare un po' le somme. È stato un anno densissimo, pieno di cambiamenti e di grandi cose, nel bene e nel male. E quindi è anche l'ora in cui, come sempre, si stila il classificone dei meglio film dell'anno, con tanto di premi collaterali annessi. Questi sempre per celebrare e ricordare il più grande cineblog che l'Italia abbia mai avuto, Insegna Provvisoria, che da un po' c'ha lasciato e ne sentiamo davvero troppo la mancanza. Let's start!

PREMI COLLATERALI

Guilty pleasure
Transformers 3 (Michael Bay)

Miglior rimpiazzo di Megan Fox
Rosie Huntington-Whiteley

Fidanzata dell'anno
Natalie Portman (Black Swan, Thor)
Carey Mulligan (Drive)

Miglior attore
Ryan Gosling (Drive, Blue Valentine, The Ides of March)

Miglior attrice
(vedi alla voce Fidanzata dell'anno)

Miglior film di botte dopo Warrior
The Fighter (David Russell)

Miglior scena di amputazione di un arto
127 Hours (Danny Boyle)

Arma dell'anno
Il machete di Danny Trejo (Machete, Robert Rodriguez)

Delusioni dell'anno
Hereafter (Clint Eastwood)
Paul (Greg Mottola)
Source Code (Duncan Jones)

Peggior reboot
X-Men: First Class (Matthew Vaughn)

Miglior film d'animazione fuori dalla top ten
Rango (Gore Verbinski)

Peggior film Pixar di sempre
Cars 2 (John Lasseter)

Miglior scena della formazione dell'universo
The Tree of Life (Terrence Malick)

Miglior film coi robottoni (ex-aequo)
Transformers 3 (Michael Bay)
Real Steel (Shawn Levy)

Miglior film muto
Drive (Nicolas Winding Refn) (Ahahah, pensavate The Artist eh?)

Miglior colonna sonora
Drive (Nicolas Winding Refn)

Miglior film italiano
Boris - Il film (Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo)

Miglior conclusione di una saga
Harry Potter and the Deathly Hallows Pt. 2 (David Yates)

Miglior quinto capitolo di una saga
Fast Five (Justin Lin)

Migliori film che non ho visto
The Artist
Senna
Faust

Miglior film che da noi non uscirà mai al cinema
Attack The Block (Joe Cornish)

Premio "Alla buon'ora" per il film straniero uscito con peggior tempismo in Italia
This Is England (Shane Meadows)



E ora...TOP TEN!










10. Midnight In Paris (Woody Allen)











9. The King's Speech (Tom Hooper)










8. 127 Hours (Danny Boyle)










7. True Grit (Joel & Ethan Coen)










6. The Adventures of Tintin (Steven Spielberg)












5. Kick-Ass (Matthew Vaughn)













4. The Tree of Life (Terrence Malick)









3. Black Swan (Darren Aronofsky)









2. Super 8 (JJ Abrams)









1. Drive (Nicolas Winding Refn)

lunedì 5 dicembre 2011

20 anni (non) a parole mie

Nella Smorfia il numero 20 è la Festa.

E festa sarà, anche se avrà indubbiamente un sapore più agrodolce rispetto alle altre Feste, di quelle con la F maiuscola.

A 10 anni si è troppo piccoli per farci caso, a 18 si pensa solo alla patente. A vent'anni ti ritrovi già con il tuo bel carico di responsabilità, conscio più che mai che tenderanno ad aumentare all'infinto.

Ci si porta ancora dietro le crisi adolescenziali, ci sono momenti in cui il verso più azzeccato è "but I remember when we were young". Ma la verità è che quando non si è stressati da studio, amici, ragazze, condominio, bollette e tutto il resto, ci si rende conto che "ferirsi non è possibile, morire meno che mai".

E' una bella sensazione, è una bella età. Si è abbastanza grandi da non esser piccoli e abbastanza giovani da non esser vecchi.
"Invecchiare senza diventare adulti" diceva Battiato, "non si perde più il tempo agli angoli delle strade" cantava il suo discepolo Morgan.

Tutte frasi di canzoni che ho ascoltato negli anni e che mi portavano alla stessa domanda: "cosa penserò di queste frasi a 20, 30, 50 anni?". Arrivato ai 20 riesco solo a chiedermi cosa ne penserò tra 10 anni.
Mi hanno sempre terrorizzato i versi di Leopardi che chiudono "Il Passero Solitario", ho ancora paura di volgermi indietro sconsolato.

Ma, dicevo, nella Smorfia il 20 è la Festa.




(E ora sotto coi 21, che sono la Donna Nuda).

lunedì 28 novembre 2011

Gamechanger: Thrilla in the Jungle



A tutti è capitato di rimanere folgorato da qualche personalità al punto da sfiorare, e in tanti casi raggiungere, l'idolatria. Cantanti, attori, scrittori, sportivi. Forse più raramente è capitato di instaurare questo tipo di rapporto unilaterale con una figura del passato.

Negli ultimi tempi mi è però capitato di imbattermi, forse per la prima volta in maniera abbastanza approfondita, nella figura di Cassius Clay, alias Muhammad Ali.
Lo spunto come sempre è partito dalla voce incantatrice dell'Avvocato, nostra non troppo segreta fonte d'ispirazione in ogni ambito, grazie ad una bellissima trasmissione su Rete3 intitolata "Quando eravamo re", omonima quindi del famoso documentario del 1996 sulla storia di quello che è da molti ritenuto il più grande incontro mai combattuto da Ali, il Rumble in the Jungle. Da lì al famoso film di Michael Mann, che ha regalato a Will Smith una nomination agli Oscar, il passo è stato molto breve.




Una folgorazione diventata rapidamente una fissazione, di quelle che però possono capitare con chiunque, non è necessario che si parli del "più grande sportivo del ventesimo secolo". E allora che c'è di diverso? Qual è la distanza tra una qualunque dello sport ed il pugile di Louisville? È molto semplice: Muhammad Ali è stato il primo, Muhammad Ali ha cambiato le regole del gioco. E non parliamo solo del gioco tecnico, di cui egli fu comunque un ispirato innovatore, dal momento che dal suo arrivo la sua boxe divenne un immediato modello di riferimento. Ma parliamo soprattutto dell'aspetto comunicativo.
Ali è stato con tutta probabilità la prima vera superstar sportiva a manifestarsi tale all'interno come (e forse persino di più) all'esterno del quadrato di sua competenza, grazie ad una comunicativa rimasta unica. La strafottenza che è poi diventata il minimo comune denominatore per il modello di sportivo vincente, il massiccio utilizzo del trash talking (arma poi divenuta oggetto comune dello sportivo come lo è sempre statao del politicante)...parte tutto da lì.

E se Ali, vuoi per l'attenzione mediatica suscitata, vuoi per la consapevolezza del proprio ruolo di "perno mediatico", sembrava rendersi conto dell'importanza che questa sua indole e questi atteggiamenti gli portavano, la domanda va per forza oltre: nel momento in cui la storia veniva scritta, era lui cosciente di come il suo modo di porsi, e più nel dettaglio le sue prese di posizione più storiche ("I got nothing against Vietcong, they never called me nigger"), avrebbero riscritto gli equilibri del futuro?
Mi piace pensare che nel rilasciare le tante interviste sopra le righe che lo hanno reso celebre, seppur attraverso il filtro della sua arroganza un po' vanesia, Muhammad Ali nato Cassius Clay si sentisse padrone di se stesso e del proprio futuro al punto da poter esercitare una grande influenza anche su quello che lo circondava.

Forse è proprio questo a rendere un simile atleta così "ispirato", e per questo unico nella storia dello sport: la capacità forse inconscia di abitare il proprio tempo leggendolo perfettamente, incarnandolo al massimo delle possibilità e proiettandosi oltre, verso il futuro, tracciando con le proprie mani (per lo più avvolte da dei guantoni) il sentiero da seguire.


venerdì 25 novembre 2011

La strada che non posso vedere



Faccio più o meno 200 km a settimana in macchina per andare agli allenamenti, la strada non è delle migliori e quando piove è anche peggio.
Mi son fatto beffa di tutti i gunsnrosari e ho messo su una vecchia canzone dei Diaframma, il cui titolo è "Pioggia", che coi tergicristalli di sottofondo viene anche meglio.
La voce era ancora quella di Nicola Vannini, la penna (e la chitarra) sempre quella di Federico Fiumani.



I Diaframma iniziano come coverband dei Joy Division, ma pubblicano il loro primo CD solamente qualche anno la dipartita di Ian Curtis.

In "Siberia" l'influenza della band di Manchester è impressionante, ma non opprimente, e la band di Firenze riesce ad acquistare una propria identità e a conquistare una discreta quantità di pubblico. Rispetto ai "cugini" Litfiba resteranno una band di nicchia.
Siberia è una metafora di solitudine interiore, l'inno ad una terra apparentemente vuota, ma che rappresenta uno dei più importanti serbatoio dell'umanità.
La formazione e il sound della band varieranno molto nel corso di quasi 30 anni, ruotando sempre più attorno a Fiumani.
Federico, cuore pulsante della Band, è a mio parere uno degli artisti più irripetibili di tutto il panorama italico.
Non ho ancora avuto la fortuna di vederlo live, ma ho raccolto una quantità immensa di aneddoti, che è come se lo avessi fatto.

Una volta lessi di un fan rimasto scontento dell'esclusione di una canzone dalla scaletta. Fiumani gliela cantò e suonò nel camerino a quattr'occhi. L'ho già detto irripetibile?

Cantautore Punk, una definizione che appare contraddittoria, ma che calza perfettamente all'uomo, che -quasi- sempre è riuscito ad unire contenuti ed energia. Del resto i suoi ascolti giovanili comprendono anche i grandi cantautori degli anni 70.
"Brindando con i demoni" è la sua autobiografia. Scritta per elogiare il sesso anale, ottenendo ulteriore sesso anale come risposta, stando alle sue parole durante un'intervista.
Fiumani o lo ami o lo odi, sia che si tratti della sua musica, sia che si parli del suo modo un pò antipatico di parlare, di arricciare il naso quando fa una battutina tagliente.

Eppure non puoi restare immune ai suoi modi di fare, al suo continuo lottare contro il proprio sentirsi inadeguato al mondo e al panorama musicale.

Beato me che ho conosciuto i Diaframma.


E beato chi è riuscito a pigliare i biglietti per i Radiohead al posto mio.

mercoledì 23 novembre 2011

Radici Comuni



Sembrerà paradossale. A chi è cresciuto nell'era analogica precedente al boom di Napster e alla "liberazione" della musica, potersi godere varie anticipazioni dei dischi prima che escano poteva forse sembrare il massimo.
Mi riferisco a loro come a un "loro" e non come a un noi perchè quando la musica ha cominciato a girare online, io a momenti giocavo ancora coi Bio Combat.
Col tempo un po' tutti hanno realizzato che questa facilità fruibilità e diffusione della musica abbia portato a una saturazione tale per cui si finisce, ad ascoltare tante cose in modo superficiale, piuttosto che meno dischi ma dedicando più tempo ad ognuno. Ma oltre a questo, mi è capitato di pensare a come questa modalità (sempre in continuo cambiamento) di far girare i prodotti e pubblicizzarli abbia mutato il mio modo di aspettarli, sti benedetti dischi. I continui pezzi in anteprima, i mille singoli con relativi video, gli album ascoltabili per intero in streaming sul sito di Rolling Stone o chi per esso. Sarà che io sono già dispersivo di mio, ma un tipo di promozione simile più che farmi aumentare l'hype, me lo fa calare. Magari sento un pezzo e mi piace, guardo il video e mi dico che è stato una grande idea. Però poi quando arriva l'agognato momento in cui si mettono (metaforicamente, ovvio, dato che gli originali non sempre ce li si può permettere) le mani sul disco, mi è già scesa la voglia. Finisce che mezzo disco già lo conosco, e sul disco mi ci metto, come posso dire...pigramente. Ma per fortuna anche a questo mio problema ci sono delle eccezioni.
Capita infatti che quasi in concomitanza, due artisti che un tempo erano assidui collaboratori, salvo poi separare leggermente le proprie strade, abbiano deciso di far uscire i loro nuovi dischi.





Uno è Common, che il 20 Dicembre tornerà sulla scena con The Dreamer/The Believer, disco che sembra segnare un genuino ritorno al rap più "conscio" e soulful che lo ha sempre caratterizzato, dopo la breve parentesi truzzo-pharrelliana di Universal Mind Control (disco che cercherò di far finta non sia mai esistito, e non chiedetemi il perchè). Il ritorno del rapper di Chicago si preannuncia oltretutto impegnativo, dato che per il 2012, dopo la proficua collaborazione per Ghetto Dreams, è stato annunciato un intero album scritto a quattro mani con Nas, dal titolo Nas.Com.





I secondi sono i Roots, che dopo l'impegnatissimo 2010 (l'ottimo How I Got Over, subito seguito dal disco collaborazione con John Legend, Wake Up) tornano già a farsi sentire con Undun, che verrà pubblicato il 6 Dicembre. Per loro si tratta dell'ennesimo tassello aggiunto al mosaico di una carriera grandiosa, costellata da diversi capolavori e una qualità media che nessuno ha saputo mantenere nella storia dell'hip-hop, soprattutto con così grande capacità di rimettersi ogni volta in discussione, sperimentando e rimescolando le carte senza perdere la propria identità. Un monumento al genere e alla musica tutta.
Ed è grazie a questi tizi e alle loro meravigliose carriere, se l'hip-hop occupa un posto così importante all'interno della mia formazione (musicale e non). Curiosamente, in un genere dove (volendo portare al suo estremo un concetto che sappiamo non essere così semplicistico) a contare sono le parole più che la musica, e proprio grazie ad artisti che hanno fatto delle parole la loro pietra angolare, con me a fare la differenza è stata soprattutto la musica: quella dei Roots e di Common, variegata di suoni black che pescano in passati a volte sporchi e duri, altre volte dolci e carezzevoli, mi ha permesso di avvicinarmi ad un genere come il rap americano che, a causa della mia difficoltà con le lyrics, avevo sempre coltivato in maniera superficiale. Un adolescente del 2011 che non capisce dei testi rap americani. E non riesce ad adattarsi alle nuove tecniche di diffusione della musica. Ma chi è il vecchio allora? Non Common, non i Roots, che nonostante l'età anagrafica dimostrano di saper andare avanti, con l'esperienza dalla loro e persino molta più comprensione dei fenomeni attuali di chi con certi media c'è praticamente nato. E come sempre io sto qui, e prendo appunti.

martedì 22 novembre 2011

Spaghetti in Rainbows




Probabilmente è banale in questi giorni scrivere dei Radiohead, ma la banalità è il prezzo della comunicazione. E poi per me i Radiohead, sono un pò come Star Trek per Sheldon Cooper, solo che io ci spendo meno soldi. Per ora.

Per i pochi sprovveduti, tra i pochi che leggeranno queste parole: la band di Thom Yorke ha deciso di cominciare il proprio Tour Europeo proprio nel Paese che sembra una scarpa. E qui cerco di fermarmi con le citazioni. Quattro date, che si preannunciano come quattro Sold Out, visto che il gruppo di Oxford non è solito venire spesso a trovarci.
E poco importa se il protagonista della tournèè sarà il discusso King of Limbs.

Il sottoscritto ovviamente sgancerebbe il cinquantello anche solo per sentire il buon Thom cantare vocali a caso per due ore su un palco. C'è chi spende di più per vedere Vasco farlo.
Attendo questo momento da quando avevo più o meno quindici anni. Non ricordo esattamente quale fu la prima canzone che ascoltai, probabilmente una tra Just e Paranoid Android.
Ricordo con esattezza invece che regalai In Rainbows ad una ragazza per Natale, dopo che lei -e sua madre- avevano apprezzato un Best Of che le avevo prestato.
Probabilmente le regalai anche il DVD dello stesso Album registrato "From the Basement".
Shit, what a boring guy.

Riatterrando dai voli pindarici, le città fortunate saranno Roma, Bologna, Firenze e Udine. Al sottoscritto toccherà l'Ippodromo delle Capannelle, probabilmente il posto meno suggestivo tra i vari palcoscenici, ma quello più abbordabile per noi comuni terroni.

Alla faccia del mio compare che in quei giorni non avrà voce, avendo cantato a squarciagola Venditti.